Parlare di cittadinanza dei “minori” ha immediatamente portato a riflettere su una differenza fondamentale nel linguaggio giuridico, quella fra diritto a e diritto di. Il “minore”, si è detto , (qualunque sia la ragione di questa “minorità”, per quanto noi si sia partiti nel corso della Summer School dal riferimento base alla “minore età”) è titolare di un diritto a non di un diritto di. In altri termini il minore ha diritto a varie forme di “tutela”, entra in ultima analisi all’interno di un complesso sistema che costituisce il welfare state, ed entra in quanto cittadino minore con un diritto di cittadinanza qualitativamente connotato e quantitativamente ridotto. Il discorso diventa presto da giuridico sociologico e viene richiamata la marshalliana tripartizione dei diritti di cittadinanza come diritti politici, sociali e civili.

Da un altro punto di vista però si deve rilevare come tale abbassamento del diritto a nella gabbia di un diritto alla tutela non renda conto della prospettiva disegnata per esempio da Jellinek che investe la soggettività giuridica di un quadruplice livello di cittadinanza: cittadinanza passiva, negativa, positiva, attiva. Ciò che interessa è che in questa formulazione il diritto negativo (diritto di, diritto di libertà) ha come sua controparte un diritto positivo che non è certo ridotto alla richiesta di tutela ma si esalta come capacità positiva di claim, quasi fonte di diritto per sé. Sembra non esservi diritto di  senza che vi sia diritto a. In altri termini Se nel primo quadro concettuale la rivendicazione giuridica dipende dall’essere un cittadino “minore” ed è necessariamente incanalata nelle regole stabilite per quel soggetto caratterizzato da un minus di cittadinanza, nel secondo in quanto cittadino (diritto alla cittadinanza e non diritto di cittadinanza) il soggetto esercita la sua titolarità giuridica avanzando pretese che fondano diritti.

Le stesse riflessioni sul rapporto fra diritto di e diritto a per la realizzazione di una condizione giuridica “pura” (usiamo questo termine così importante nella tradizione filosofico-giuridica con piena consapevolezza della necessità di una sua problematizzazione) possono essere fatte se si considera il tema, esploso con la questione migratoria, del rapporto non mai preso in considerazione nella sua valenza giuridica fra diritto alla mobilità e diritto di libera circolazione. Quest’ultimo è stato una delle conquiste più grandi del processo di unificazione europea, con le sue diverse fasi e istituzioni. Eppure la difficoltà di sostenerlo si è fatta sempre più evidente a mano a mano che se ne riconosceva l’infondatezza, non essendo in alcun modo pensato come realizzazione di un più fondante diritto alla mobilità. (Gabriella Valera, riflessioni su Summer School La cittadinanza dei “minori”: diritti, educazione, dialogo).