Bello ricordare oggi Titos Patrikios con un mi pezzo ispirato dall’intenso incontro con lui e con i giovani poeti del Concorso Internazionale di Poesia e Teatro Castello di Duino nell’anno 2009.

“Saggezza e speranza della poesia: L’incontro di Titos Patrikios con i giovani poeti del Concorso Internazionale di Poesia Castello di Duino” di Gabriella Valera (2009)

“Cara Gabriella….vorrei ringraziarti per aver invitato il poeta Titos Patrikios, la cui saggezza e profonda riflessione sulla vita mi ha impressionato in ogni attimo del suo parlare. Come molti altri giovani, terrò questo tesoro nel mio cuore pieno di fresche esperienze, mentre mi allontano dalla Baia di Duino per andare verso l’estate della vita”

Sono parole di Ana Toroš, giovane poetessa slovena tra i vincitori del Concorso Castello di Duino. E non mi pare di poter trovare parole migliori per raccontare il nostro incontro con il poeta Titos Patrikios e le ragioni del nostro invito.

In un contesto in cui tanti giovani portano la speranza della poesia nel cuore volevamo che fosse presente una figura carismatica, dal cui spessore umano la poesia si sprigiona “senza suoni melodiosi/ senza colori/ solo con segni bianchi e neri/ con bianchi e neri silenzi” come Patrikios scrive: perché questo è il messaggio di impegno alla verità e alla conoscenza che noi stessi vogliamo lanciare.

Durante gli incontri settimanali di lettura e ascolto della poesia, che costituiscono il filo conduttore della vita della nostra associazione, le poesie di Titos Patrikios ci avevano fatto pensare ed emozionare. La sua riflessione sul linguaggio, luogo di identità, memoria e testimonianza (“non è stato facile preservare la mia lingua/ tra le lingue che stavano per divorarla […]. Mi sforzavo di non perdere neanche una parola/ perché in questa lingua mi parlavano anche i morti”: come egli scriveva nel ‘92), rimanda ad una identità complessa fatta di incontri (qualcosa di più che semplici amicizie) conservati nel cuore e nella carne come brandelli di vita (“Non è il ricordo degli amici uccisi / a straziarmi le viscere./ E’ il pianto di migliaia di sconosciuti/ che lasciarono gli occhi spenti/ nei becchi degli uccelli[ …] Le migliaia di amici sconosciuti/ che diedero la vita per me: 29 gennaio 1949) . Un ricordo che si configura come dovere di riconoscenza e di riconoscimento del proprio essere nella storia, traccia indelebile che rimarrà per sempre (“Devo a qualcuno ogni brandello della mia carne,[…] se ti parla una mia parola/ ti parlano milioni di persone” scritta durante gli anni del confino; e, ancora, in esilio, “la vita che vivo è quasi un dono.[ …]Un dono della sorte se non un furto della vita altrui,/ perché la pallottola a cui scampai non andò a vuoto/ ma colpì l’altro corpo che si trovò al mio posto […] tempo […] regalato dai morti/ per narrare la loro storia” 1957).

Parte indelebile dell’identità del poeta è certo l’esperienza della ferocia delle guerre e delle dittature. Scrive nel 1957:

Li hanno giustiziati nella piazza centrale/ li hanno giustiziati nelle cave di marmo dall’eco profonda,/ davanti a caffè e a monumenti deserti,/ e donne impazzite correvano a cercare gli abiti insanguinati,/ li hanno giustiziati davanti al muro dei rifiuti/ tra cocci di bottiglie e scatole di conserve….

Non è, qui, la “banalità” del male, nel senso tragicamente rappresentato da Hana Arendt (1963) e poi riproposto da Jasmin Tašanović a proposito dei crimini perpetrati in Bosnia; piuttosto la tragica incomprensibilità del male, nel suo affacciarsi sugli scenari quotidiani (i caffè, i monumenti, il muro dei rifiuti, le scatole di conserve), dove insaziabile di pianto si leva il grido delle donne disperate. La Grecia stessa verrà rappresentata in figura di donna dai capelli sciolti che sparge “una manciata di terra sui giustiziati” e compie l’atto pietoso di chiudere i loro occhi spalancati: quasi a ripensare in termini di “pietà” la propria identità umana e storica contro la disidentificante barbarie della tirannide e dello sterminio.

Ma quando il “giovane ricercatore” tenterà, molti anni dopo, di spiegare ciò che è accaduto – e ancora accade – potrà rilevare i meccanismi del male, la sua logica ‘oggettiva’: l’uomo con i suoi moventi o le sue colpe gli rimarrà mistero (“Il giovane ricercatore” 2000).

Così anche la parola con la sua inadeguatezza ed equivocità rivela spesso la fatica e forse l’impossibilità di una identità intellettuale chiara e riconosciuta: “Come trovare, come scegliere/ in quell’affollamento di parole/ l’unica che serve, /come salvarsi dalla moltitudine della altre che ti si appiccicano addosso …” scrive il poeta nel 1992 (“Di nuovo le parole” ) ma nel 2000: “Cerco di chiamare le cose/ col loro nome/ e ogni tanto incontro/ nuove difficoltà. / Per esempio chiamare la violenza violenza/ e non intervento di pacificazione” (2000).

In realtà quel percorso umano e mentale, quel viaggio iniziato da giovane, ha portato il poeta, attraverso l’impegno e la lotta, a quella sintesi di intelligenza delle cose e di inqiuetudine del non sapere che si manifesta a più riprese nella sua poesia.

Del “viaggio” parlano le poesie dedicate alla madre ( scritte fra il 1952 e il 1953 quando il poeta era al confino):

“Madre madre/ in fondo sapevi che non ci sarebbe stato riposo/ sapevi che il nostro sguardo ti abbandonava […] sapevi che ce ne saremmo andati […] Madre madre, affacciata al balcone se tardavamo/ a scrutare la strada”. “ Madre/ quando non ci vedi/ sappi che ti siamo venuti incontro. […] Soltanto un favore, madre./ Ama anche quelli che non amavi./ Ama anche quelli che hai amato e ti hanno dimenticata. /Ama anche noi”.

Se spesso nella poesia il viaggio è metafora, qui esso, in quanto metafora, si sovrappone alla realtà del distacco, umanamente incarnata nella madre che sa e non vorrebbe sapere, che scruta i ritorni, che vorrebbe odiare ed è chiamata ad amare. E’ un viaggio che non divide quello che porta alla ricerca di una verità, di una luce, di un’ umanità riscattata, perchè prima dell’amore per il viaggio “lungo e molto amato” “c’è il grano degli uomini/ che deve provenire dai grandi campi/ dev’essere macinato e diventare pane”: “Madre è lungo il viaggio. /Ma non ci dividono la terra e il mare […] guarda i bambini che disegnano la terra e il mare/ con un grosso pennarello azzurro./ La terra e il mare, madre,/ uniscono gli uomini”.

Infinite sono le sfumanture di pensiero ed esistenziali che passano nei versi di Titos Patrikios e che costituiscono i frammenti della sua identità che è identità di poeta: il mare, l’isola, i monti, la pietra, la luce sono “figure” che tornano spesso nei suoi testi, nello stesso tempo concretamente riferite alla sua vicenda umana e traslate nel dominio di quel dar forma alle cose (e al proprio io) che è la poesia.

Ci ha raccontato Patrikios i diversi momenti di formazione e di elaborazione della sua poetica, dalla fase in cui prevaleva la piena espressione dei sentimenti, alla fase in cui egli volle che la sua poesia avesse una funzione politico-sociale, alla terza fase quella espressa in “I simulacri e le cose” nel 2000, per cui la poesia “cerca risposte a domande non ancora fatte”. In questo stesso testo però si ricorda anche che il poeti “chiedono, come nell’istante cruciale chiese l’altro poeta [scil. Goethe] più luce”. Come non ripensare allora a “Versi 2” del 1957 (“mi basta sollevare un angolo di verità/ fare un po’ di luce nella nostra vita falsificata ”) e come non ripensare a Edipo (1970) che volle sciogliere gli enigmi, “illuminare l’oscurità” nella quale tutti si sistemano; che, infine, per non essere solo, volle accecarsi; ma “disitingueva ancora con il tatto/ le cose che nessuno voleva vedere”!

Ora la poesia si configura certo come una sorta di profezia sul futuro spirituale dell’umanità ma quella incarnata dal poeta è pur sempre una umanità migrante, in continuo viaggio fra la terra ed il mare (che sono buoni ed uniscono), simile ad una lettera che va e che viene, ricca di messaggi importanti che nessuno legge ma nessuno butta (“La lettera” 1959), portatrice di un po’ di luce.

Noi abbiamo voluto aprire questa lettera che per lungo viaggio recava ormai tanti segni di tempo e per questo ci invitava ancor più ad uno sguardo attento nello sciogliere quei segni. Abbiamo offerto al poeta, emozionati, la nostra lettura dei suoi versi. E quando con voce stentata una nostra amica disabile ha letto “Sotto la luce c’è un ruscello, dietro la nostra pena c’è un fiore”, versi che aveva trascritto sul suo quaderno come fossero suoi, abbiamo visto che Titos Patrikios si è emozionato a sua volta.
“Se anche un solo mio verso può entrare nell’animo di una sola persona, fare del bene ad un solo uomo, allora posso essere felice di essere stato poeta”, egli ci ha detto infine.

Grazie allora, per averci parlato e averci ascoltato, grazie per la parola che ci hai dato, per la speranza che ti ha e ci ha illuminato.

Gabriella Valera (2009)