“L’assurdo del colpo di scena è perciò da leggere come un assurdo fittizio cagionato dal troppo  vero sopraggiunto a schiacciare la nostra convinzione che le cose fossero come mai avrebbero potuto essere.
Tutto sommato meglio così. I colpi di scena non correggono la realtà, ma chi la interpreta” (Giuseppe Manfridi, Anatomia del colpo di scena, Roma 2017 La lepre edizioni, p. 245).

Giuseppe Manfridi  attraverso una intensa rivisitazione di testi (dalla poesia al teatro, dal cinema al racconto e alla narrativa in generale ha sin qui  accompagnato il lettore in un percorso di riconoscimento: la costruzione (perché di costruzione si tratta) da parte dell’Autore del colpo di scena è in realtà un processo di identificazione: significa identità, 2+2, logica anche, verità. Tutto gioca. I vari giochi linguistici della “verità” e della “oggettività” vengono messi in campo. Si sa che seguono delle regole, si è chiamati a riconoscerle, si è chiamati a seguire le mosse nell’arena comunicativa che ci riguarda sempre, che ci identifica.

Manfridi “demiurgo”  di demiurghi. Ogni autore è demiurgo nella sua arena comunicativa e determina le mosse. Manfridi, costruendo il libro abilmente verso un SUO colpo di scena, si manifesta egli stesso demiurgo di questo grande dramma che è “il colpo di scena” come disvelamento di ciò “che deve essere”. Il disvelamento dell’essenza del colpo di scena si presenta con la stessa forza del colpo di scena stesso.

Ecco allora che l’autore inserisce un SUO racconto e che progressivamente andando verso la fine del libro rivela che il processo di indentificazione è un processo di oggettivazione plurale:  demiurghi di se stessi sono tutti gli individui in quei pochi momenti della vita in cui sono “autori”.

Identità plurali che si guardano, che sono testimonianza le une alle altre, fino a crocefiggersi (il termine è usato da Manfridi) a quella identità estrema cui ciascuno tende, oltre la pluralità, oltre il suo bene e il suo male, oltre la sua colpa e la sua santità:  “di martirio in martirio” (p. 247)

“(eccesso di luce)
Quotidiano è il nostro viaggiare tra colpi di scena disseminati lungo la strada che porta alla scoperta della nostra identità, e che è il composto della vita che viviamo con le vite di coloro che conoscono segreti su di noi, a noi ignoti; segreti che a ogni istante potrebbero sconvolgerci col loro svelarsi. IN tal caso, noi per virtù di queste rivelazioni, non cambieremmo, anzi: diverremmo ancora più noi stessi, come massimamente se stesso divenne Edipo al momento in cui scopre di aver ucciso suo padre e di essersi giaciuto con sua madre. Quei crimini sono  gli ingredienti  del suo esistere, e il suo esserne informato produce 
e abbagliamento. UN eccesso di luce dunque” (ibid. P. 251).

LUCE, con la cui invocazione inizia aprendo a dismisura la scena “L’indecenza e la forma. Pasolini nella stanza della tortura” (Algra Editore, 2017). Voci in una sola voce, ridotta alla sua forza estrema mediante il verso.

L’incontro con Giuseppe Manfridi si è svolto nel Caffè degli Specchi di Trieste il giorno 19 ottobre 2018, promosso dalla Associazione Poesia e Solidarietà, con la mia introduzione critica e le interviste di Massimiliano Cocozza. E’ intervenuto  il maestro Stefano Sacher suonando musiche di Clara Shumann in omaggio al lavoro di Giuseppe Manfridi che è dedicato alla pianista/ compositrice, e al suo essere grande donna.

 

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